LIUTPRANDO E LA PROCESSIONE
«È già passata l’ora seconda, disse Niceforo: dobbiamo celebrare la
proéleusis, cioè la processione. Facciamo ciò che ora preme (Virgil.,
Bucol., 9, 66); a queste cose ti risponderemo al tempo opportuno».
Non mi incresca farvi la descrizione della proéleusis (processione) e a
voi, miei signori, di udirla. Una moltitudine copiosa di bottegai e di
gente ignobile, radunata in quella solennità per accogliere e lodare
Niceforo, occupava dal palazzo fino a S. Sofia i margini della via a
formare per così dire un muro; era mal ornata di piccoli scudi assai
leggeri e lance da poco. Ad accrescere questo brutto spettacolo si
aggiunge il fatto che la maggior parte del volgo, a lode di lui, avanzava a
piedi scalzi. Credo che in tal modo essi pensassero di essere piuttosto di
ornamento alla proéleusis stessa. Ma anche i suoi ottimati, che con lui
passarono in mezzo a quella moltitudine di plebe scalza, erano rivestiti di
tuniche ampie e tutte bucherellate per troppa vetustà. Avrebbero potuto
partecipare più decorosamente indossando l’abito di tutti i giorni. Non
v’era nessuno fra loro il cui trisavolo avesse avuto nuova quella tunica.
Colà nessuno era ornato d’oro o di gemme, se non il solo Niceforo, che i
paludamenti imperiali, confezionati a misura del corpo degli antenati,
rendevano ancor più brutto. Per la salvezza vostra, che mi è più cara
della mia! (Cic., Pro Sestio, 45): una veste preziosa dei vostri
maggiorenti è più preziosa di cento di queste e forse di più. Condotto
dunque alla proéleusis, presi posto in un luogo elevato presso agli
psaltai, cioè i cantori.
E mentre quel mostro avanzava, i cantori adulatori acclamavano: « Ecco,
viene la stella mattutina, sorge Eoo (Virgil., Eneid., 3, 588), riverbera
con lo sguardo i raggi del sole, pallida morte dei Saraceni, Niceforo
médon, cioè principe». Per cui si cantava anche: «Médonti, cioè al
principe, Niceforo pollà ète, cioè siano molti anni. O genti, adorate,
venerate, a lui solo piegate il collo!» Quanto più sinceramente allora
avrebbero potuto cantare: «O carbone spento, vieni, mele (mio caro) tu
che sei come una vecchia nell’incedere, Silvano nel volto, rustico
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errante per le selve, piede di capra, cornuto, bimembre (come un
satiro), setoloso, indocile, agreste, barbaro, rozzo, villoso, ribelle
(Anthol. Latina, I, 2, n. 682), schiavo poltrone di Cappadocia» (Cic.,
post red. Ad sen., 14)!». Rigonfio di superbia per quelle nenie
menzognere, entra in S. Sofia, e lo seguivano a distanza gli imperatori
suoi signori, che lo adoravano piegandosi fino a terra nel bacio della
pace. Un suo armigero, infilata una freccia su una canna, tracciò nella
chiesa la data che segna da che tempo incominciò a regnare, e così chi
non ha visto ciò, capisce l’anno del suo impero.
Mi invitò ad essere suo commensale per quello stesso giorno. Non mi
ritenne però degno di aver la precedenza su chiunque dei suoi nobili, e
così sedetti al quindicesimo posto da lui senza tovaglia: nessuno dei miei
compagni non dico solo che non sedette alla mensa, ma non vide
nemmeno la casa in cui ero convitato. Durante quella cena turpe e
stomachevole, secondo le usanze degli ubriachi, unta d’olio e aspersa di
un certo pessimo liquido di pesci, mi fece molte domande sulla potenza
vostra, sui regni ed i soldati. E mentre gli rispondevo punto per punto
con sincerità, disse: «Tu menti: i soldati del tuo padrone non sanno
andare a cavallo, sono inesperti di combattimenti a piedi; la grandezza
degli scudi, il peso delle corazze, la lunghezza delle spade, il peso degli
elmi non li lascia combattere in nessuna direzione». E sogghignando
aggiunse: « Gli è d’impedimento anche la gastrimargía, cioè la
ghiottoneria del ventre: il loro dio è il ventre, loro coraggio è la crapula,
loro fortezza è l’ubriachezza, il digiuno invece li infiacchisce e la
sobrietà è causa di paura. Nemmeno in mare il tuo signore ha flotte in
abbondanza. Io solo posseggo il nerbo delle forze di mare e lo assalirò
con le flotte, distruggerò con la guerra le sue città sul mare e ridurrò in
cenere quelle che sono vicine ai fiumi…».
Liutprando di Cremona, Relazione dell’ambasceria a Costantinopoli, 8-11.
(trad. it. in Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, a cura di M.
Oldoni e P. Ariatta, Novara 1987).