LIUTPRANDO RACCONTA IL RICEVIMENTO ALLA MAGNAURA
Uscendo da Pavia il l° d’agosto (949), giunsi in tre giorni lungo il corso
del Po a Venezia, dove trovai l’eunuco Salemone kitonite,
ambasciatore dei Greci, che, di ritorno dalla Spagna e dalla Sassonia,
desiderava tornare a Costantinopoli e conduceva con sé il messo del
signore nostro, allora re, ora imperatore, con grandi doni, cioè
Liutifredo, ricchissimo mercante di Magonza. Partiti da Venezia il 25
agosto arrivammo il 17 settembre a Costantinopoli, dove in che modo
inaudito e meraviglioso fummo accolti, non ci rincrescerà di scriverlo.
Vi è a Costantinopoli una casa, contigua al palazzo, di meravigliosa
grandezza e bellezza, che dai Greci è detta Magnaura, quasi grande aura,
con la «v» posta al luogo del «digamma». Costantino fece così
preparare questa casa sia per i messi degli Ispani, che allora erano
appena arrivati, sia per me e Liutifredo. Innanzi al sedile dell’imperatore
stava un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli
ugualmente di bronzo e dorati di diverso genere, che secondo le loro
specie emettevano i versi dei vari uccelli. Il trono dell’imperatore era
disposto con una tale arte, che in un momento appariva al suolo, ora più
in alto e subito dopo sublime, e lo custodivano, per dir così, dei leoni di
immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d’oro,
i quali percuotendo la terra con la coda, aperta la bocca emettevano il
ruggito con le mobili lingue. In questa casa dunque fui portato alla
presenza dell’imperatore sulle spalle di due eunuchi. E sebbene al mio
arrivo i leoni emettessero un ruggito, e gli uccelli strepitassero secondo
le loro specie, non fui commosso né da paura, né da meraviglia, poiché
di tutte queste cose ero stato informato da chi le conosceva bene.
Chinatomi prono per tre volte adorando l’imperatore alzai il capo e
quello che avevo visto prima seduto elevato da terra in moderata misura,
lo vidi poi rivestito di altre vesti seduto presso il soffitto della casa; come
ciò avvenisse non lo potei pensare, se non forse perché era stato
sollevato fin là da un ergalion (argano), con cui si elevano gli alberi dei
torchi. Allora non disse nulla di sua bocca, giacché, anche se lo avesse
voluto, la grandissima distanza lo avrebbe reso sconveniente, ma per
mezzo del logoteta mi domandò della vita e della salute di Berengario. Avendogli risposto conseguentemente, ad un cenno
dell’interprete uscii e mi ritirai subito nell’ostello concessomi.
Ma non m’incresca di ricordare neppure questo, che cosa allora io abbia
fatto per Berengario, perché si conosca con quanto amore abbia
prediletto costui e che razza di ricompensa abbia da lui ricevuto per le
mie buone azioni. Gli ambasciatori degli Ispani ed il nominato
Liutifredo, messaggero di Ottone nostro signore, allora re, avevano
portato molti doni da parte dei loro signori all’imperatore Costantino. Io
invece da parte di Berengario non avevo portato nulla se non una lettera,
per di più piena di menzogne. Il mio animo ondeggiava non poco per
questa vergogna e meditava attentamente che fare a questo proposito.
Mentre ondeggiavo e fluttuavo assai, la mente mi suggerì di conferire i
doni, che da parte mia avevo recato all’imperatore, come da parte di
Berengario e di ornare, per quanto potevo, di parole il piccolo dono
(Terenzio, Eunuch., 214). Offrii dunque nove bellissime corazze, sette
bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe d’argento dorato, spade,
lance, spiedi, quattro schiavi karzimasi, più preziosi per l’imperatore di
tutte le cose nominate. Infatti i greci chiamano Karzimasio il fanciullo
reso eunuco per amputazione dei testicoli e della verga; il che i mercanti
di Verdun sogliono fare per grande guadagno e li vendono in Spagna.
Fatte queste cose, l’imperatore diede ordine di chiamarmi a palazzo tre
giorni dopo e, rivolgendosi a me di sua bocca, mi invitò a banchetto,
dopo il quale donò a me ed al mio seguito un grande regalo. Ma giacché
si è presentata l’occasione di narrarlo, ritengo bene non tacere, ma
descrivere quale sia la sua mensa, soprattutto nei giorni di festa e quali
giochi si facciano a mensa.
Vi è una casa presso l’ippodromo rivolta a nord di meravigliosa altezza e
bellezza, che si chiama Dekaenneakubita147, nome che ha preso non
dalla realtà, ma per cause apparenti; deka in greco è dieci in latino, ennéa
è nove, kubita poi possiamo dire le cose inclinate o curvate dal verbo
cubare. E questo pertanto, perché nella natività secondo la carne del
signor nostro Gesù Cristo (25 dicembre) vengono apparecchiate
diciannove mense. A queste l’imperatore e parimenti i convitati
banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma sdraiati; in quei
giorni si serve non con vasellame d’argento, ma solo d’oro. Dopo il cibo
furono recati dei pomi in tre vasi d’oro che, per l’enorme peso, non sono
portati dalle mani degli uomini, ma da veicoli coperti di porpora. Due
vengono posti sulla mensa in questo modo. Attraverso fori del soffitto tre
funi ricoperte di pelli dorate sono calate con anelli d’oro che, posti alle
anse che sporgono nei vassoi, con l’aiuto in basso di quattro o più
uomini, vengono sollevati sopra la mensa per mezzo di un ergalion
girevole, che è sopra il soffitto, e allo stesso modo vengono deposti.
Tralascio di scrivere, che sarebbe troppo lungo, i giochi che ho visto lì;
uno solo non mi increscerà d’inserire qui per la meraviglia.
Venne un tale che portava sulla fronte senza aiuto delle mani un palo
lungo ventiquattro piedi o più, che aveva un altro legno di due cubiti per
traverso ad un cubito più in basso dalla sommità. Furono introdotti due
fanciulli nudi, ma campestrati, cioè con un cinto, i quali salirono sulla
pertica, vi fecero evoluzioni e discesero poi a capo in giù, mantenendola
immobile come se fosse infitta al suolo con le radici. Quindi, dopo la
discesa di uno, l’altro, che era rimasto e lassù aveva fatto giochi da solo,
mi rese attonito per ancor più grande meraviglia. In ogni modo, finché
entrambi avevano giocato, sembrava cosa possibile, perché, sebbene in
modo mirabile, governavano con un peso uguale la pertica su cui erano
saliti. Ma quel solo che rimase sulla sommità della pertica, poiché seppe
equilibrare il peso così bene da giocare e discendere indenne, mi rese
così stupefatto che la mia meraviglia non passò inosservata anche
all’imperatore in persona. Perciò, fatto venire l’interprete, mi chiese che
cosa mi paresse più straordinario: il fanciullo che si era equilibrato con sì
gran misura che la pertica rimaneva immobile, oppure quello che sulla
fronte aveva sorretto il tutto con tanta abilità che, né il peso, né le
evoluzioni dei fanciulli lo piegarono neppure un po’. Dicendo io di non
sapere che cosa mi sembrasse thaumastòteron, cioè più meraviglioso,
egli, scoppiato in una gran risata, rispose che similmente non lo sapeva
neppure lui.
Ma nemmeno penso di dover tralasciare in silenzio quest’altra cosa che
colà vidi di nuovo e straordinario. Nella settimana prima del baiophoron,
che noi diciamo i rami delle palme, l’imperatore fa l’erogazione di
monete d’oro sia ai militari, sia a quelli preposti ai vari uffici, a seconda
del merito di ciascun ufficio (24-30 marzo 950). E poiché volle che io
partecipassi all’erogazione, mi ordinò di venire. Fu una cosa di tal
genere. Era stata posta una mensa di dieci cubiti di lunghezza e quattro di
larghezza, che aveva le monete poste in scatolette, secondo che era
dovuto a ciascuno, col numero scritto all’esterno delle medesime.
Entravano alla presenza dell’imperatore non alla rinfusa, ma in ordine
secondo la chiamata di colui che recitava i nomi scritti degli uomini
secondo la dignità dell’ufficio. Fra questi è chiamato per primo il rettore
della casa, al quale vengono posti non nelle mani ma sugli omeri le
monete con quattro scaramangi (mantelli). Dopo di lui ho domestikòs tes
askalónes e ho deloggáres tes ploôs, dei quali il primo è capo dei soldati,
l’altro della flotta. Questi, siccome la dignità è pari, ricevono monete e
mantelli in pari numero e, per la gran quantità, non li portarono già sugli
omeri, ma se li trascinarono dietro a fatica con l’aiuto di altri. Dopo
questi furono ammessi i magistri nel numero di ventiquattro, ai quali
furono erogate libbre di monete d’oro, a ciascuno secondo lo stesso
numero ventiquattro, con due mantelli. Dopo questi seguì l’ordine dei
patrizi, che ricevettero in dono dodici libbre di monete con un mantello.
Non so il numero dei patrizi né quello delle libbre, ma soltanto ciò che
era dato a ciascuno. Dopo queste cose vien chiamata una turba immensa,
dei protospathari, degli spathari, degli spatharokandidati, dei kitoniti,
dei manglaviti, dei protokarabi, dei quali uno aveva preso sette libbre,
altri sei, cinque, quattro, tre, due, una libbra, secondo il grado di dignità.
Non vorrei tu credessi che questa cosa si sia compiuta in un sol giorno.
Si cominciò il giovedì dall’ora prima del giorno fino all’ora quarta del
venerdì e al sabato fu terminata dall’imperatore. A questi che prendono
meno di una libbra, non già l’imperatore ma il parakoimómenos
distribuisce per tutta la settimana che precede la Pasqua. Assistendo io e
considerando con meraviglia la cosa, l’imperatore per mezzo del logoteta
mi domandò che cosa mi piacesse di questa faccenda. E a lui dissi: «Mi
piacerebbe assai, se mi giovasse; come anche al ricco assetato e ardente
il riposo di Lazzaro apparsogli sarebbe piaciuto se gliene fosse venuto
pro’; ma poiché non gliene venne, come, di grazia, avrebbe potuto
piacergli?» Sorridendo l’imperatore, un po’ mosso da vergogna, accennò
con il capo che andassi da lui e volentieri mi diede un grande pallio con
una libbra di monete d’oro, che ricevetti ancor più volentieri.
Liutprando di Cremona, Antapodosis, VI, 4-10. (trad. it. in Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, a cura di M.
Oldoni e P. Ariatta, Novara 1987).